7 assessori per la Cultura che verrà

By 16 Giugno 2020Radar

Il 10 giugno 2020, per la terza diretta della nostra rassegna «Progettiamo la cultura che verrà», abbiamo messo attorno ad uno stesso tavolo 7 assessori alla Cultura di altrettante città italiane – a partire ovviamente da Bologna, passando per Milano, Torino, Firenze, Roma, Napoli e Parma. L’incontro promosso da UCCT ha avuto lo scopo di fare il punto sulla rete intercittadina che si era attivata in pieno lockdown per rispondere in maniera organica e omogenea all’emergenza del settore Cultura quando gli interventi a livello nazionale rischiavano di essere del tutto insufficienti, e gran parte delle maestranze, prima di tutto gli intermittenti, dimenticate dal Cura Italia.

Gli assessori delle dodici città metropolitane con delega al comparto dell’arte e dello spettacolo avevano promosso ad aprile un appello per la salvaguardia del settore rivolto al ministro Franceschini e alle Regioni, attivando per la prima volta un’unità di crisi tripartisan che ha dimostrato di poter incidere, e molto, nel portare la Cultura al centro delle politiche di sviluppo del sistema Italia.

Il punto di vista dei singoli amministratori è ovviamente local e poggia sulle diverse esperienze e specificità cittadine. Ma se si uniscono i puntini, si ricompongono i pezzi del puzzle territoriale, la fotografia dell’Italia che ne emerge è più ricca di colore, spunti e risposte di quanto lo sia mai stata, riguardo un settore troppo spesso considerato, a torto, minoritario e marginale.



#Bologna – Matteo Lepore

«Non abbiamo ottenuto tutto, ma abbiamo ottenuto delle cose che prima non c’erano. D’altra parte io penso che la politica serva a questo: a spostare le montagne, anche se di poco». 

In qualche modo padrone di casa dell’incontro, assieme a Massimo Maisto, del gruppo Cultura di UCCT, Matteo Lepore si sofferma a parlare della rete politica costruita assieme agli altri assessori delle città metropolitane che in maniera inedita, nel periodo più buio del lockdown, hanno ragionato sui temi pur provenendo da esperienze politiche diverse: «nella fase 1 ci siamo trovati a collaborare per rispondere in tempi rapidissimi all’emergenza ma anche per pensare al dopo».

La crisi sanitaria ha toccato punti delicati della nostra società ma il settore culturale è stato il primo a fermarsi e a lungo è parso sarebbe stato l’ultimo a ripartire. Grazie alla risposta compatta degli amministratori locali si sono ottenuti ammortizzatori sociali per tutti, un sostegno al reddito che una larga fetta di lavoratori del settore non aveva mai ottenuto prima; ma soprattutto la rete è riuscita a far entrare la Cultura nell’agenda politica: adesso, spiega Lepore, «dobbiamo fare in modo che lì rimanga anche oltre l’emergenza».

La prima battaglia all’orizzonte per Bologna è rappresentata dalla necessità di recuperare i 6 milioni e mezzo persi con lo stop al turismo. Alcune risorse tampone sono già arrivate, ma non basta: anche se sotto le Due Torri per ora si è riusciti a non mettere mano al bilancio 2020 per la cultura cittadina, la strada non sarà in discesa.

«Abbiamo salvaguardato le previsioni di bilancio, nonostante un buco da 50 milioni – fa infatti notare Lepore – e quindi siamo in grado di programmare l’estate bolognese e garantire tutti i servizi».

Ma al centro delle politiche dei prossimi anni dovrà esserci sempre di più la dignità del lavoro culturale: «non possiamo più permettere che si utilizzi il lavoro gratuito, una piaga già prima del Covid, e dobbiamo immaginare un’Italia che paga i propri artisti, perchè l’arte è lavoro». 

Bene, dunque, sulle tutele per gli intermittenti, ma per Lepore occorre adesso «un salto di qualità», a partire dall’ideazione di un piano strategico nazionale improntato all’articolo 9 della Costituzione (« La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura»).


#Milano – Filippo Del Corno

Milano, spiega l’assessore Filippo Del Corno, è una città tradizionalmente poco incline allo spazio pubblico, o almeno così è stato fino agli anni 10 del Duemila. Come in molti altri casi la pandemia ha fatto emergere con maggiore forza la necessità di cambiare rotta e spinto l’amministrazione a varare il progetto «Aria di cultura» che agisce sostanzialmente su tre fronti: quello della programmazione (attraverso un censimento di tutto ciò che i soggetti culturali stanno producendo in vista dell’estate); quello dell’accompagmamento  (è stato stilato un vademecum cittadino per i gestori con procedure e regole di sicurezza); e quello della produzione – ad esempio l’edizione 2020 dell’Estate Sforzesca sarà particolare perchè non potrà contare come in passato sulla presenza di ospiti internazionali ma sarà un palcoscenico per Milano, a disposizione degli operatori culturali della città.

In questo quadro lo scorso 24 aprile è stato pubblicato «Milano2020» una sorta di manifesto sulle strategie di adattamento alla crisi innescata dal Covid-19, aperto al dibattito pubblico: un piano strategico ideale, proposto dalla giunta, che traccia «un vero e proprio cammino da percorrere tutti assieme».

Del Corno sta cercando di intercettare e da una direzione consapevole ad un forte desiderio di trasformazione: «stiamo andando – spiega – verso una nuova ordinarietà; Milano cambia ritmo, dobbiamo ridefinire i tempi di vita e dell’essere comunità». La città, dunque, nel post-Covid vuole essere dinamica ma non frenetica, plurale ma non bulimica: «abbiamo tante scorie del modello degli anni Dieci di cui dobbimo liberarci senza perderne la spinta propulsiva».

A margine, per l’assessore alla Cultura della giunta Sala, un commento al cosiddetto «Piano Colao», l’elenco di 102 proposte avanzate al governo da un comitato di esperti guidato dal manager Vittorio Colao, per la ripresa economica del Paese, che sta suscitando da più parti forti critiche: «Nel piano non compaiono mai la parola spettacolo o la parola danza, teatro e musica solo incidentalmente. Un piano per la cultura è invece necessario come fattore di sviluppo sociale ed economico, non solo per le città ma a livello nazionale». Da qui il richiamo al doppio vincolo cui l’impresa culturale è da sempre sottoposta in Italia: «o la cultura viene intesa come ancillare al turismo, oppure ce la dimentichiamo». Mentre l’obiettivo deve essere di rimettere la cultura al centro dell’idea di Paese.


#Napoli – Eleonora De Majo

L’aver agito tempestivamente in difesa dei lavoratori e delle lavoratrici dello spetaccolo su scala nazionale, riuscendo a ridare dignità a operatori troppo spesso dimenticati – anche prima della crisi sanitaria – rappresenta un obiettivo mai raggiunto prima a tutela del comparto. 

Durante il lockdown sapevamo che la fame di cultura che sarebbe scaturita dalla chiusura totale di tutti gli spazi di aggregazione ci avrebbe messo di fronte a sfide del tutto inedite

Ma la vera sfida nella fase 2, per De Majo, riguarda l’autonomia di programmazione: dovendo fare a meno degli introiti provenienti dalla tassa di soggiorno, che finora hanno finanziato la cultura a livello locale, il governo deve garantire alle città sufficienti risorse perchè le difficoltà del settore turistico non inneschino un effetto domino su quelle culturali.

«Non è stato tutto semplice in questi mesi nella nostra interlocuazione con il Presidente del Conglio – chiarisce – ma l’eco della nostra voce si è sentito e ha prodotto risultati mai raggiunti prima». In questo senso, per la rete degli assessori alla cultura, il lockdown è stato un laboratorio che va preservato «come contesto rivendicativo costante, perchè abbiamo dimostrato che funziona». 

Ciò nonostante, l’assessorato alle poliiche culturali a Napoli vive un momento di stallo: «non abbiamo ancora potuto godere del ristoro della tassa di soggiorno, c’è una difficoltà effettiva di programmazione in autonomia, c’è una fase di attesa, anche se non ci siamo fermati». Ad esempio è stato messo in campo «La Cultura come cura», un manifesto scritto a tantissime mani che si pone l’obiettivo di invertire le rotte bulimiche e predatorie «che stavamo percorrendo – talvolta inconsaplevomente – prima della quarantena». E c’è il «Bando Arterie» sulle iniziative di prossimità e di quartiere, con uno sguardo privilegiato alle periferie, dove soprattutto al Sud, la cultura è un’alternativa concreta e reale alla marginalità.

Tanto è stato fatto, dunque, e tanto rimane da fare. Ma il metodo del coordinamento tra assessorati alla cultura delle città metropolitane ha funzionato molto bene: De Majo lo definisce «una sorta di unità di crisi della cultura», che ha coinvolto enti, istituzioni, lavoratori. «Quando le cose si fanno assieme – conclude – il percorso diventa omogeneo e quindi più incisivo per tutti». Dall’altra parte bisogna anche iniziare a pensare a come rilanciare il turismo. In questo Napoli è molto simile a Bologna: «l’industria turistica è ancora molto giovane che non ha sostenuto bene il colpo». Per ora un punto fermo è l’apertura della mostra di Marina Abramovic, fissata per il prossimo 5 settembre: (anche) da qui ripartiranno cultura e turismo a Napoli.


#Firenze – Tommaso Sacchi 

«La rete degli assessori che abbiamo realizzato non è stata un esercizio di stile ma un’esperienza politica di grande valore; una voce corale, tripartisan, nell’interesse unico del sostegno al sistema cultura. Un valore da custodire, un’attività non solo virtuosa ma necessaria». Tommaso Sacchi, da Firenze, rivendica assieme ai colleghi i risultati raggiunti unendo le forze a prescindere dal colore politico, prima di entrare nel dettaglio delle specificità fiorentine.

Che ci sono e non sono di poco conto. 

Firenze incassa infatti normalmente 47 milioni di euro dalla tassa di soggiorno, senza contare l’indotto. Una città di 400 mila abitanti che ospita ogni anno tra i 13 e i 14 milioni di turisti provenienti da tutto il mondo, chiaramente sta soffrendo più di qualsiasi altra in Italia gli effetti di una chiusura così prolungata.

In un contesto così critico la prima scelta dell’amministrazione è stata partire dall’ascolto degli operatori e delle imprese del settore: «il mondo della cultura – spiega – è stratificato per definizione, tra intermittenti, cooperaative, associazionismo». Per questo il ruolo di regia delle istituzioni diventa ancora più importante per arrivare ad una sintesi tra le varie voci e i vari interessi in campo.

L’esperienza inedita del lockdown ha anche posto la città di Firenze di fronte alla necessità, tutta nuova, di riportare «la residenza nel centro cittadino». Il fondo di emergenza per il settore cultura ha la scopo di mettere urgentemente in sicurezza progettatori, ideatori e manifestazioni. Ma ovviamente non basta.
Da qui in avanti, «Firenze dovrà impegnarsi sempre di più ad ospitare stabilmente artisti, personalità della cultura, maestranze, che possano scegliere di stabilirsi qui, vivere qui, al di là del singolo evento». 


#Torino – Francesca Leon

«Ci siamo rocambolescamente messi a lavorare assieme – racconta l’assessora alla Cultura del Comune di Torino – in un momento in cui attorno a questo settore c’era un silenzio assordante». 

Chiudevano i cinema, chiudevano i teatri, i musei e le bibloteche, centinaia di spettacoli venivano annullati, senza che nessuno ne parlasse o chiedesse un intervento deciso

Gli amministratori, spiega, hanno subito percepito come reale il rischio di una desertificazione delle città, capendo di dover combattere tutti assieme una stessa battaglia. In un quadro emergenziale in cui la gran parte delle decisioni venivano assunte a livello centrale, far sentre anche la voce dei governi più periferici della democrazia italiana, quelli cittadini, poteva fare la differenza. E l’ha fatta.

Il tema che Francesca Leon affronta per primo riguarda il fatto che la cultura in Italia coinvolge solo una percentuale abbastanza limitata della popolazione: non più del 30% dei nostri cittadini partecipano alle attività culturali. «Questo dato – propone – dovrebbe avere maggiore rilevanza all’interno del dibattito sull’importanza della cultura: dobbiamo trovare il modo di rispondere alla domanda reale e di far emergere soprattutto la domanda inespressa». «E’ un dato di fatto – prosegue – del quale tenere conto nel futuro, che con la politica culturale tradizionale non siamo riusciti a coinvolgere la maggioranza dei potenziali utenti, ma le città da sole questa battaglia non possono vincerla, c’è biosgno di una interlocuzione diretta e costante tra territori e Governo».

Scendendo più nel dettaglio della situazione a Torino, Leon spiega che si è entrati in una fase ristorativa ma non ancora progettuale e di rilancio.

Tra le iniziative promosse dal suo e da altri assessorati in sinergia c’è «Torino a cielo aperto», un progetto che permetterà di sfruttare le aree all’aperto della città per rilanciare le varie attività che negli ultimi mesi si sono dovute fermare.

Per Torino in particolare non sarà una passeggiata, perchè come spiega l’assessora la città è in grande difficoltà da un punto di vista della tenuta dei conti pubblici, «siamo in pieno piano di rientro rispetto ad un bilancio ancora in rosso». 

Ciò nonostante sul piatto ci sono due bandi: uno dedicato alla costruzione delle arene cinematografiche («dopo 3 mesi di straming – fa notare Leon – e con i cinema che non riescono ancora a riparire, vogliamo offrire agli esercenti la disponibilità di uno spazio pubblico») e un bando per le attività estive, che permetta di riattivare gli spettacoli dal vivo. 


#Roma – Luca Bergamo

Il tema del lavoro occasionale, che investe una parte di professionismo – soprattutto giovane – e quello degli intermittenti, «non riusciva ad entrare nel periscopio del Governo fino a quando non siamo intervenuti con la nostra battaglia comune». 

Luca Bergamo, assessore alla Cultura della Capitale, spiega da osservatore privilegiato come le politiche culturali, in questi ultimi anni, abbiano virato da politiche per beni e servizi al tempo libero delle persone a politiche che riguardano lo sviluppo umano. 

Questa virata, precisa Bergamo, «non dipende dal Covid ma è un’impostazione che tutte le nostre città stavano già perseguendo». Questa impostazione, prosegue, è il presupposto perchè il Paese possa arrivare a riconoscere alla vita culturale «quel ruolo non strumentale all’offerta turistica che è indipensabile per fare dell’Italia un paese capace di evolversi».

Non disperdere le forze, continuando a lavorare in collaborazione con i colleghi delle altre città metropolitane per incidere sulle scelte dei governi nazionali e del Parlamento è importante ma è anche importante – sottolinea – «che il mondo della cultura intorno a noi, inizi ad assumere su di sè la responsabilità di parlare con una voce più armonica, al di là della crisi». Bergamo fa infatti notare una deboleza di atteggiamento nel settore in cui ognuno cerca di difendere la propria fragilità: «ci sono segmenti che cercano di tutelare solo se stessi, senza produrre una capacità negoziale collettiva». Gli amministratori possono e devono senz’altro essere interlocutori e mediatori di un processo di questo tipo, «ma chi fa – gli artisti, i produttori – comincino a porsi in un modo più “confederale”». 

Il primo punto all’ordine del giorno sulla scrivania dell’assessore rimane comunque uno: come uscire dalla crisi? 

Per Luca Bergamo non si esce da questa crisi se non si fanno i conti con la crescita spaventosa delle disuguaglianze che dagli anni Settanta ad oggi è costante e indipendente dalla cosiddetta crescita economica. La concentrazione globale della ricchezza è oggi maggiore di quella che c’era alla fine dell’Ottocento, il sistema continua a ridurre l’azione della sfera pubblica e a trasferire risorse nella sfera privata. Questo meccanismo è stato parte consistente anche delle politiche culturali ma «non possiamo immaginare di gestire questa nuova fase, che si preannuncia difficilissima dal punto di vista sociale, se il nostro obiettivo sarà tornare alle condizioni preesistenti, in cui abbiamo fatto scivolare il welfare in una zona residuale». La ricetta per il rilancio della Cultura di Bergamo verte dunque su tre formulazioni: l’articolo 27 della dichiarazione universale dei diritti umani, e gli articoli 9 e 3 della Costituzione italiana. 

«Se noi questi tre principi li applichiamo sul serio – spiega – attuiamo una trasfomazione radicale fondata sullo sviluppo umano e non sullo svilupo di un settore economico». Questa trasformazione dovrebbe passare anche per una nuova struttura urbanistica delle città, oggi principalmente funzionale alla dinamica dei flussi finanziari o dei processi speculativi. 

«Secondo me – conclude l’assessore della Giunta Raggi – il piano strategico dovremmo farlo noi: essere noi come città a indicare al Governo gli elementi di un piano per il Paese in cui la cultura sia un elemento centrale».

Troppo ambizioso? «Non esiste in nessun altro stato europeo una rete di persone che hanno responsabilità istituzionali, capace di agire trasversalmente – sia da un punto di vista geografico che politico. Se riuscissimo a porci come soggetto unico su scala nazionale, potremmo portarci appresso una rete internazionale, diventare un punto di riferimento anche per altri Stati: noi come città ma soprattutto noi come Paese ne avremmo bisogno».


#Parma – Michele Guerra

«La pandemia ci è servita per sistemare alcuni punti fragili del nostro sistema culturale; criticità che conoscevamo da tempo ma che nella normalità non avevamo avuto modo di prendere di petto come invece abbiamo fatto adesso».
Così Michele Guerra, assessore al Comune di Parma, che sarebbe dovuta essere capitale italiana della Cultura 2020.

E proprio per questo motivo, lo stop imposto dalla quarantena, da queste parti, si è fatto sentire più che altrove. «Nell’anno in cui avevamo costruito una struttura molto complicata e portato la città a investire in ogni settore per Parma capitale della cultura, ci siamo ritrovati con una realtà in ginocchio». Tantissime le imprese che avevano già investito pesantemente, basti pensare che gli alberghi agli inizi di gennaio avevano già registrato 5 mesi di sold out su 12. Ma la cultura, che doveva essere il motore di questo grande progetto, improvvisamente si è fermata: «abbiamo dovuto bloccare un treno che era lanciato a grandissima velocità, e non è stato semplice». 

Di sicuro la possibilità di far slittare di un anno la programmazione pensata per il 2020 è stata d’aiuto ma è stato necessario mantenere attivi tutti i finanziamenti già predisposti per stare vicino soprattutto alle imprese più piccole, che rischiavano di non arrivare vive al 2021.

Il clima che si respira a Parma, spiega Guerra, è un clima da salvezza: «rimaniamo almeno tutti in piedi, ma dobbiamo cambiare il modo di pensare la cultura in città».

Come già prospettato anche da tutti gli altri colleghi, «è inutile immaginare un percorso ‘covid-oriented’, in qualche modo istigato dal virus, ma bisogna mantenere un approccio culturale alla cultura, non economico, non turistico e nemmeno sociale, ma squisitamente culturale». 

Per questo è stato pensato un nuovo bando che non guarda alle fondazioni partecipate del Comune o ai soggetti convenzionati ma agli attori in maggiore difficoltà. Il piano di Parma per il post Covidviaggerà quindi su due binari: raccoglimento e moltiplicazione.

Ciò significa che se da una parte i progetti saranno più contenuti, non solo per quanto riguarda le dimensioni dell’audience, ma nel senso di un approccio meno gridato e più incisivo, dall’altra bisognerà moltiplicare luoghi e spazi, andando a riconquistare posti che fino a due mesi fa era impensabile utilizzare per fare cultura. Un esempio su tutti? Dopo aver temuto di dover cancellare il Festival Verdi, è stato infine individuato uno spazio del tutto inedito, quello del Parco Ducale. Ma Guerra cita come esempio di resilienza anche il portale Parma Ritrovata, ora affidato ai gruppi dei centri giovani: non più semplice vetrina culturale ma un luogo vivo di scambio tra realtà associative.

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