“Abitare nel Covidocene” di Pierluigi Molteni

By 11 Aprile 2021Senza categoria

Vogliamo condividere con voi, come approfondimento sul tema dell’abitare, questo articolo a firma di Pierluigi Molteni pubblicato sulla rivista Focus in.

L’architetto Molteni fa parte di Una Città con Te e ha collaborato alla stesura del documento del gruppo Ambiente, Consumi e stili di vita che abbiamo recentemente presentato come contributo al dibattito sul futuro di Bologna.

Potete leggere l’articolo qui sotto, o scaricandolo cliccando qui.

“10 anni in 10 settimane” sembra lo slogan di cure salvifiche o di ringiovanenti diete detox, capaci di cambiare i connotati fisici di chi vi si sottopone e di eliminare radicalmente ed in poco tempo le cattive abitudini. Potremmo utilizzare questo stesso slogan anche per descrivere come lo strano ed inaspettato evento pandemico che stiamo vivendo abbia sradicato e divelto usi e costumi che si credevano dati per sempre, trasformando in maniera profonda e per tanti versi senza ritorno consolidate abitudini, fino a coinvolgere approcci e comportamenti. Il lungo tempo trascorso in cattività all’interno delle mura domestiche e il non potersi allontanare se non entro qualche centinaio di metri dal proprio luogo di residenza hanno profondamente cambiato gli stessi paradigmi di valutazione degli spazi di vita, interni ed esterni. E con i nuovi paradigmi hanno fatto presto i conti dapprima gli abitanti di tali spazi e immediatamente dopo tutto il mondo accademico e professionale che della teoria e della pratica progettuale di questi spazi si fa tradizionalmente carico. Il tema della residenza ha improvvisamente, e con prepotenza, preteso una ribalta da cui mancava da troppi anni. Passata l’esigenza di dare una risposta all’emergenza abitativa delle masse che si trasferivano dalle campagne alle città, per fornire loro una casa dignitosa secondo i parametri modernisti, il tema abitativo è stato progressivamente ridotto al lessico elementare delle agenzie immobiliari. La casa è stata descritta essenzialmente dalla sua dotazione di vani, come se l’essere mono, bi o trilocale esaurisse il racconto di tutte le sue qualità. Nulla era concesso alla sua necessità di essere prima di tutto “luogo”. La lunga clausura ci ha portato a passare più tempo all’interno delle nostre quattro mura, facendocele conoscere più di quanto una lunga frequentazione distratta ci avesse mai permesso di fare. Il sole che prima del Covidocene vedevamo, nei casi più fortunati, solo al risveglio, ci ha stupito con inaspettati tracciati disegnati dalla sua luce sui muri domestici al passare delle ore della giornata. Le ore trascorse all’interno ci hanno fatto scoprire luoghi della casa che la nostra giornaliera assenza non aveva mai rilevato come interessanti, riconoscendo quelli più adatti alla lettura, al lavoro, alla meditazione e all’esercizio fisico. Questa nuova consapevolezza ha fatto emergere qualità inaspettate o, al contrario, difetti insopportabili. Il fatto che la casa si fosse improvvisamente trasformata nel nostro carapace, ce l’ha fatta improvvisamente sentire più nostra. Lo scrittore Andrea Bajani nel suo bellissimo e recentissimo testo Il libro delle case dona una nuova ed inaspettata centralità agli interni domestici, li fa uscire dal cono d’ombra che li ha resi muti ed indifferenti fondali per farli divenire i veri protagonisti, testimoni non neutrali ed immanenti delle vicende umane che ospitano.

L’intimità dei nostri spazi più privati, rapidamente riadattati a postazione di lavoro o ad aula scolastica, è stata violata dalle telecamere dei nostri pc, mostrando a tutti l’immagine spesso disadorna e a volte un po’ squallida di ambienti senz’anima e senza cuore, arredati per successive e passive stratificazioni. Rendere pubbliche queste dimesse scenografie domestiche ha portato molti a ragionare non solo sulla funzionalità delle nostre case ma anche sulla loro capacità di rappresentarci. La casa come racconto pubblico di uno status sociale ha avuto un certo rilievo con l’affermarsi tardo ottocentesco di una nuova borghesia. Le mura domestiche erano luogo di socialità, affermazione di appartenenza ad un contesto culturale, esibizione di potere economico e di buon gusto. Con l’esigenza di una casa per tutti il tema dell’autorappresentazione aveva smesso di essere così centrale, limitandosi l’arredo a copiare in maniera acritica e a volte maldestra gli stilemi della tradizione. A parte alcuni casi di rilievo o le fortunatissime stagioni della Milano del dopoguerra, con gli interni di assoluta bellezza di Gio Ponti, di Magistretti, di Caccia Dominioni e di tanti altri progettisti di talento, il decoro domestico non ha costituito sicuramente una priorità generalizzata. Nella maggior parte dei casi, il tocco di design all’interno della casa contemporanea è delegato a qualche pezzo prendi&monta dell’Ikea. Persone capaci di investire cifre notevoli nell’acquisto di automobili o di vestiti, barcollano quando devono affrontare progetti di interior importanti. Mentre un’automobile o un vestito sono “pubblici” per eccellenza, la casa può essere tana privatissima, la cui ostensione dipende strettamente dalla voglia o necessità di condividere uno status. L’obbligo di dimora pandemico ha forse per la prima volta cambiato il punto di vista. L’abitazione, il suo paesaggio interno, è diventata importante in sé, per la capacità di accogliere e far sentire bene prima di tutto i suoi abitanti. Forse per la prima volta si è fatta strada una consapevolezza diversa nel pensare il proprio spazio vitale ed il suo arredo. Non è un caso che la prolungata prigionia abbia spinto tanti occupanti precedentemente inconsapevoli a investire sulle proprie case, per dare nuove funzionalità ma anche nuove qualità, nuovo appeal, nuovo interesse. Molti richiedono ad esempio più spazio, per permettere di accogliere funzioni nuove. Chi può permetterselo pretende spazi dove poter fare attività fisica, dove potersi isolare per lavorare, giocare o studiare. Tutti chiedono più spazi all’aperto. Che sia un piccolo terrazzo o un giardino, il contatto con l’esterno ha mostrato con evidenza la sua imprescindibile necessità. La situazione eccezionale di stress che abbiamo vissuto ha dimostrato la necessità terapeutica del prendersi cura: che sia un giardino, un piccolo orto o poche piante in vaso, la presenza dell’elemento naturale e di spazi outdoor sarà qualcosa a cui non rinunceremo più.

Anche il nostro rapporto con l’esterno sembra profondamente cambiato. Prima il doversi obbligatoriamente spostare, magari a chilometri di distanza, per soddisfare le diverse esigenze quotidiane, ci faceva percepire come poco importanti gli spazi pi. vicini alla nostra abitazione. Se tutte le mattine prendo la macchina per recarmi al lavoro, per portare i figli a scuola, per fare attività sportiva o la spesa al centro commerciale, il tempo che potrà o vorrà passare nei pressi della mia abitazione sarà residuale. Ma da quando la pandemia ci ha costretto ad una prossimità forzata al luogo di residenza, abbiamo iniziato a prendere consapevolezza dell’ambito urbano che ci circonda. E ci siamo accorti che la distanza tra gli edifici spesso definisce un puro spazio di risulta, un’area inabitabile poiché non progettata per l’incontro e la socialità. Finiti i tempi dei cortili della nostra infanzia, lo spazio tra gli edifici è spesso e volentieri solo standard di parcheggio e distanza regolamentare dai confini. Ci siamo accorti con dolorosa evidenza che il fatto di delegare, in nome di una ipotetica convenienza e libertà di scelta, l’assolvimento delle funzioni complementari al nostro abitare a strutture lontane da casa ha generato intorno ad essa il deserto. Nessun luogo di relazioni e quindi, spesso, nessuna relazione. Oggi si fa urgente l’esigenza di un nuovo approccio all’organizzazione urbana. Prende forza la richiesta di città dei 15 minuti, dove le funzioni che rendono ricca la vita urbana siano facilmente e rapidamente raggiungibili a piedi o in bicicletta. Questo comporterà, si spera a breve, la rivitalizzazione di ampie aree urbane, prima mero dormitorio ed ora potenzialmente pronte a ridefinirsi come nuove centralità. Si riqualificheranno le più piccole aree verdi per renderle effettivamente vivibili, non solo “rimasugli” di un asettico calcolo di standard urbanistici. Aree dove ritrovarsi e dove fare comunità. Perchè un altro dei lasciti migliori di questa emergenza è la consapevolezza che non ci si salva da soli. L’alternativa alle città introverse, alienanti e alienate, costruite sull’individuo-monade sono comunità vive e vitali capaci di farsi carico dei luoghi per renderli accoglienti e inclusivi. Interno ed esterno delle città mai come oggi sono uniti in una nuova consapevolezza di interdipendenza. L’uno non può fare a meno dell’altro, in un continuum di progetto che rende interni ed esterni esito di un identico approccio, perchè lo spazio tra gli edifici costituisca l’irrinunciabile elemento pubblico del privato domestico. A ben vedere è come se lo stesso concetto di casa si fosse allargato, comprendendo in un unico abbraccio lo spazio tra le mura e quello fuori le mura, come se l’essere accogliente della sola casa non bastasse più. Forse non è un caso il grande successo che ha oggi il trekking fuori dai confini urbani. Migliaia di camminatori hanno scoperto la necessità di un nuovo e più immersivo contatto con una natura incontaminata, affollando i cammini di tutta Europa. Forse ci si è resi conto che andare fuori casa significa uscire dalla città, abbandonarne i confini urbani perchè casa e città sono un unico grande interno che accoglie la vita di tutti noi.

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  • A ben vedere è come se lo stesso concetto di casa si fosse allargato, comprendendo in un unico abbraccio lo spazio tra le mura e quello fuori le mura, come se l’essere accogliente della sola casa non bastasse più.

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