«Troppo spesso sui social, in televisione, in radio, viene dato risalto al ruolo dei professionisti dello spettacolo. Ci sono tutti: musicisti, coreografi, macchinisti, fonici, tecnici luci, videomaker, tour manager. In questo momento storico ci si è accorti dell’esistenza di queste figure lavorative. Ma ancora si fa fatica a dare risalto a chi fa il lavoro sporco. A chi arriva per primo in cantiere, l’ultimo ad andare via. A chi effettivamente vi permette di assistere allo show».
A parlare sono i lavoratori più invisibili tra gli invisibili del mondo della cultura e dello spettacolo. Ad esempio c’è Adriano (il nome è di fantasia) che ha iniziato a fare questo mestiere a 17 anni e oggi ne ha 35. A parte una breve interruzione ha sempre lavorato per cooperative attive nel settore dell’intrattenimento, principalmente a Bologna anche se spesso è trasfertista nel Nord Italia, nel pieno di quella che in questi mesi è diventata “la zona rossa” maggiormente colpita dalla pandemia.
Ma la sua non è semplicemente la storia di uno che come tantissimi altri negli ultimi due mesi ha dovuto smettere di lavorare. Adriano e i suoi colleghi, sparsi in tutta Italia, appartengono ad una delle categorie dimenticate, per le quali non è previsto nessun tipo di paracadute, perchè intrappolate in una delle tante zone grigie del precariato lavorativo fatte di ambiguità formali che alimentano diseguaglianze sostanziali.
«Quello che faccio – spiega infatti – non ha niente a che vedere con il mio contratto». Ufficialmente è un addetto al carico e scarico delle merci, un inquadramento tipico del settore terziario, perchè in Italia la manodopera, specializzata che lavora dietro le quinte di eventi, concerti, teatri, tv e cinema, ha un contratto generico da facchino mentre all’estero la mansione ricoperta da questi lavoratori gode di una propria dignità e una propria regolamentazione. E’ riconosciuta, insomma, con il nome di stagehand.
Si tratta della forza lavoro maggiormente impiegata nel settore, basti pensare che ogni tecnico (del suono, delle luci e via discorrendo) può contare in media sull’aiuto di circa 5 o 6 cosiddetti facchini. Ciò significa che durante i grandi eventi, ai quali lavorano circa un centinaio di tecnici, operano almeno 400 maestranze.
L’assenza di un riconoscimento contrattuale non è aspetto di poco conto in generale, ma in epoca di lockdown questo equivoco formale emerge con ancora maggiore forza: è alla base del motivo per cui Adriano e compagni, in tutto lo Stivale, non sono beneficiari di nessun tipo di sostegno al reddito; non rientrano nel Cura Italia; gli è stata negata la cassa integrazione; non possono contare per ora su nessuna tutela specifica nonostante le indennità straordinarie previste per i lavoratori dei settori del turismo, della cultura, dello spettacolo, del cinema e dell’audiovisivo. Il motivo? Per accedere ad esempio alla cassa in deroga avrebbero dovuto quantificare il numero di chiamate annullate a marzo. Ma in genere le chiamate arrivano 24 ore prima dell’evento per il quale è richiesto il loro contributo. Quindi, in buona sostanza, con l’avvio della prima fase di quarantena quelle chiamate non sono proprio arrivate ed è quindi impossibile tracciare la curva discendente delle loro commesse. Anche perché si tratta in ogni caso di intermittenti: mediamente il lavoro non manca e nel periodo estivo (per esempio in occasione dei maxi concerti al Campovolo di Ligabue o al Modena Park di Vasco) vengono impiegati anche tutti i giorni per diverse settimane, ma nel corso dell’anno affrontano anche mesi molto meno impegnativi, in una modalità che può essere definita del tutto casuale.
«Molti di noi aspettavano proprio l’inizio della stagione calda in cui spesso e volentieri guadagnamo a sufficienza per mantenerci durante il resto dell’anno». E adesso? «Alcuni parlano addirittura di marzo 2021, quindi di saltare sia la stagione estiva che la prossima stagione invernale ma se l’orizzonte è così lontano, non sappiamo se riusciremo ad arrivare a quella data, sia come strutture che come singoli: è probabile che nel frattempo molti teatri chiudano o che in tanti saranno costretti a cambiare mestiere per sopravvivere».
In queste settimane i ragazzi hanno cercato di attivarsi riunendosi in videoconferenza per riuscire ad ottenere maggiori tutele. Il loro obiettivo principale è conquistare un riconoscimento della loro figura lavorativa a livello nazionale, come avviene già in Francia, Germania o negli Usa. Attualmente sono in contatto con diversi rappresentanti sindacali, sia di base che confederali, ai quali si sono rivolti per cercare di avere più informazioni possibili e stabilire così in che modo muoversi.
«In questo momento le mie entrate sono a zero – racconta Adriano – quella era la mia sola fonte di reddito. L’unico ammortizzatore sul quale posso contare sono i miei risparmi: avendo avuto un inverno abbastanza pieno, sono riuscito a mettere da parte alcuni guadagni, ma certo agli inizi dell’anno non potevo immaginare che mi sarebbero serviti per superare questa crisi. Tanto che quando il mio capo a febbraio mi ha proposto di riposarmi, avendo lavorato già tanto, anche per fare spazio ad altri colleghi ho accettato di buon grado: se avessi saputo come sarebbe andata da lì a poco, forse avrei scelto diversamente».
Certo, perchè se la battaglia sindacale procede con i suoi tempi che potrebbero essere lunghi, ci sono necessità materiali che avrebbero bisogno di essere soddisfatte subito. «Gli amici ci consegnano del pane, chi ha la possibilità si è fatto prestare qualche soldo dai familiari» ma lo Stato, almeno per il momento, per loro non c’è. L’unico aspetto positivo, che in realtà è un’altra faccia del problema, è che Adriano e i suoi compagni hanno in media tra i 25 e i 35 anni di età: sono i famosi diversamente giovani italiani che in larga parte non hanno ancora costruito una famiglia. In parte sono quindi sollevati dalla preoccupazione di dover sostenere oltre se stessi i loro affetti, in parte la condizione di sigle per i Millennial è spesso una scelta non completamente libera ma il risultato diretto di una vita da precari.
Tra loro ci sono anche degli universitari che fanno questo mestiere solo per arrotondare o mantenersi durante gli studi, solamente in alcuni periodi dell’anno. Ma quelli che come Adriano lavorano sempre, «hanno fatto dei corsi, investito in questo lavoro, sono istruiti per farlo».
In passato nell’ambiente sono già nati dei movimenti autonomi per rivendicare maggiori tutele che tuttavia non hanno portato a niente. Con questa ultima crisi lavorativa, innescata da questa inedita crisi sanitaria, invece «sono stato io il primo a pensare di organizzare una battaglia», spiega ancora Adriano. «Visto che sono un po’ diventato un punto di riferimento per i miei colleghi, il tramite tra la manodopera e l’ufficio, e visto che si fidano di me ho pensato lottiamo tutti insieme per i nostri diritti».
Inizialmente erano sicuri di rientrare nella salvaguardia del governo anche solo come facchini, d’altra parte, riflette, «il settore sa che esistiamo, anche se hanno sempre chiuso un occhio per ragioni economiche, pensavamo che un aiuto sarebbe arrivato anche per noi». E invece niente.
Così hanno aperto una pagina Facebook che si chiama “Stagehands Bologna – Facchini dello spettacolo”: «Cerchiamo di prendere più consensi possibile per portare alla luce il nostro lavoro: il termine facchino è limitativo di ciò che realmente facciamo, vogliamo essere riconosciuti anche noi come professionisti dello spettacolo».
Fare luce, ironia della sorte, è parte del loro mestiere quindi certamente riusciranno ad illuminare meglio di chiunque altro la zona d’ombra del loro scontento ma occorre che qualcuno, per una volta, attrezzi per loro un palco.