Le situazioni di crisi, quelle di vera e propria emergenza, funzionano più o meno come una cartina al tornasole. Confermano e metteno in evidenza elementi che la quotidianità spesso impedisce di vedere, mentre invece la “straordinarietà” amplifica, ma difficilmente crea dal nulla. Questa considerazione, che si adatta a molti ambiti della nostra vita investiti dalla pandemia, è particolarmente fondata se si prova ad accostarsi ai tanti modi in cui cui le persone con disabilità, le loro famiglie o caregiver, hanno attraversato la quarantena e stanno attraversando questa nuova fase.
Non esiste la categoria, ci sono le persone e le loro storie
La prima riflessione alla base delle tante altre possibili è che la disabilità come concetto generale non esiste. Ci sono le storie, le specifiche situazioni, le persone, che alla luce della loro biografia, e delle competenze, attitudini, valori, condizioni sociali ed economiche, agiscono e reagiscono in modo molto diverso. Di questo dovremmo riuscire finalmente a tener conto non solo nelle situazioni emergenziali ma anche e soprattutto nell’organizzazione quotidiana, “normale”, dei servizi di cura e di accompagnamento.
Per capire un po’ meglio, allora, come le persone disabili e le famiglie abbiano vissuto questo tempo, è necessario accostarsi alle diverse situazioni con sguardo preciso e “vicino”. Solo da un osservatorio che guarda di fino e non incasella in macro categorie vediamo come ci siano persone con disabilità o famiglie che hanno una persona disabile al loro interno estremamente resilienti, che trovano forza proprio nell’aver già affrontato nella propria vita molte prove di “emergenza”.
Per altre persone, e altre famiglie, questo non accade. Il periodo di quarantena ha amplificato una solitudine di fondo già presente, una fatica nella cura che rischia l’insostenibile, un accentuarsi del senso di ingiustizia, una carenza o mancanza di reti solidali – istituzionali o informali che siano.
Su questo passaggio riporto uno stralcio della testimonianza di Pinuccia, mamma di Tatiana, giovane donna con disabilità, le cui parole danno conto in modo pieno della forza resiliente cui prima ho fatto cenno:
«Questa situazione, alla quale nessuno era preparato, ci ha destabilizzati tutti. Inizialmente, per il bene del paese, si chiedono sacrifici, rinunce, restrizioni su tanti fronti. “Bisogna restare a casa”. Bisogna fermare quasi tutto; ti senti paralizzato, impotente di fronte a qualcosa di cui non ti rendi realmente conto. Ed ecco che la paura di quello che non vedi ma che ti circonda ti assale, si pensa subito alla salute, poi al lavoro, alle scuole chiuse, che cosa sarà della nostra economia, ma soprattutto fanno paura i tanti decessi. Tante cose tutte in una volta, le informazioni si susseguono e piano piano si prende coscienza di quello che sta succedendo attorno. Come vivo questo momento? Flash back: ho una figlia con disabilità motoria e per motivi di riabilitazione, da quando aveva due anni, abbiamo trascorso sei mesi all’anno per 10 anni in un centro di fisioterapia in Cecoslovacchia. I centri erano costruiti in zone isolate, lontano dalle città, l’unica possibilità di svago era quella di andare nel cortile un’ora al giorno per una boccata d’aria, diversamente si era sempre in palestra a fare ginnastica e poi chiusi nella propria ed unica stanza. Il tempo è passato e ne siamo uscite rinforzate sia io che mia figlia…
Ritorno all’oggi: quando ho saputo che erano state emanate restrizioni a livello nazionale, il pensare di dover rimanere in casa non è stato un problema. Mi rattrista vedere sui notiziari le persone stare male, molte di queste morire nonostante il personale sanitario, pur stremato ma responsabile, cerchi di far fronte a questa epidemia. A queste persone va tutto il mio riconoscimento e ringraziamento. Tante famiglie hanno dovuto affrontare una prova così dolorosa come un lutto senza nemmeno poter stare vicino ad un proprio caro per evitare un possibile contagio; mi sono venuti in mente i miei nonni e il ricordo degli ultimi giorni della loro vita, circondati dall’affetto di tutta la famiglia unita».
E’ vitale la persistenza dei legami e la rete di relazioni
Dalle interviste che ho svolto emerge come un elemento essenziale, per affrontare in modo costruttivo questo periodo, sia stato il supporto a distanza che è stato predisposto dalle organizzazioni (associazioni, cooperative) che abitualmente si occupano delle persone con disabilità. Sono piccole organizzazioni, che seguono gruppi non numerosi di persone, con una motivazione al lavoro di cura molto alta che travalica il mansionario professionale. Quello che si è tentato di realizzare è qualcosa che si potrebbe definire quasi paradossalmente sostegno di prossimità a distanza, una sintonizzazione in itinere. Questo supporto si è tradotto principalmente:
a. nella personalizzazione delle proposte affinchè le persone, anche se distanti fisicamente, continuassero a sentire la forza dei legami e dei progetti a cui, alcuni da tanti anni, partecipano. Le modalità di lavoro a distanza che sono state proposte hanno permesso, in molti casi, anche di recuperare un rapporto a due che non è spesso compatibile con le modalità di lavoro standard. Nella distanza si sono sperimentate forme di vicinanza. Questo tratto è stato di estrema importanza per tranquillizzare persone che, per la disabilità che vivono, possono non avere strumenti efficaci di decodifica di quello che sta succedendo. Allo stesso tempo è elemento di sicurezza anche per le famiglie che hanno potuto continuare ad avere contatti e a poter contare su referenti conosciuti e di fiducia;
b. nel cercare modi per rinforzare una storia comune e il senso di appartenenza ad un gruppo. Più difficile ma altrettanto necessaria è stata la sfida di provare a tenere insieme la trama delle relazioni che sostengono un gruppo. Le esperienze a cui faccio riferimento puntano in maniera forte sulla dimensione del gruppo come contenitore evolutivo delle esperienze dei singoli. Incontrarsi tutti i giorni, condividere il tempo e lo spazio dell’informalità e della convivialità come mangiare insieme, chiacchierare nelle pause sul terrazzo, è determinante per fare gruppo e sentirsi parte di una storia comune … Ma durante la quarantena? Da soli nelle proprie case, davanti ad un monitor, che succede? Ecco che allora si è investito intenzionalmente sui momenti informali, la chiacchiera, il divertimento leggero e condiviso, piccoli segnali di una presenza amicale non solo professionale;
c. nel sostegno emotivo: in sintesi quello che si è provato a mettere sul piatto è un sostegno ad ampio raggio, di supporto anche emotivo. Non si è trattato tanto di istruire e dare compiti fini a sé stessi ma utilizzare strumenti, attività, proposte anche di tipo laboratoriale come aiuto al mantenimento e alle competenze delle persone ma soprattutto come argine all’ansia, alla depressione, alla fatica di pensare al futuro.
Anche su questo punto riporto un passaggio del contributo di Pinuccia: «Mi ritengo fortunata perché all’interno dell’Associazione in cui mia figlia lavora, grazie alle tecnologie che ora sono a disposizione della maggior parte delle persone, gli Educatori possono far svolgere loro compiti o attraverso la scrittura o attraverso video facendo sì che queste attività tengano unito il gruppo con una restituzione e facendosi quindi forza vicendevolmente. È sicuramente un modo per far sì che le persone, in un periodo così sospeso, non vadano in crisi e si sentano unite e utili. Questa modalità di lavorare in rete per le persone con disabilità è sicuramente una buona prassi da diffondere ad altre realtà sul territorio, in periodi così critici. Questo per mia figlia Tatiana è stato un momento di messa alla prova, ho visto la sua forza, la sua capacità di resistenza, la capacità di affrontare le problematiche, di organizzarsi nelle attività lavorative, di guardare avanti e di relazionarsi con le persone anche in modo diverso. Momenti di crisi ci sono stati e alle volte l’altalenare delle emozioni nel sentire cosa stava accadendo in giro per il mondo a causa di questa crisi sanitaria ha fatto emergere in lei pensieri forse mai avuti prima, comunque condivisi con noi. Momenti di silenzio, di chiusura, ma anche di speranza e di gioia la stanno accompagnando in questo periodo, spesso anche in funzione delle notizie che vengono diffuse. Ma sicuramente la forza che i suoi colleghi di lavoro le trasmettono è per lei la ragione di vita. Spesso mi dice di sentirsi fortunata perché ha una famiglia, un lavoro, un impegno, uno scopo che la fa sentire realizzata perché considerata. Penso spesso alle persone come lei, lasciate a se stesse, oppure a quelle che non hanno le opportunità che ha lei di esprimersi e apprezzare ciò che la circonda».
Il divario nell’accesso alle risorse tecnologiche
Come già appare evidente dalle tante considerazioni che si stanno facendo sulla didattica on line, anche nell’utilizzo delle tecnologie a supporto di progetti educativi e di “aiuto” a distanza, esiste un divario molto ampio tra persone e tra famiglie. Tra chi, già attrezzato e abituato, ha potuto subito utilizzare questi strumenti per comunicare e condividere, e chi, non utilizzandoli normalmente, si è trovato in seria difficoltà e anche totalmente escluso. Anche su questo aspetto l’emergenza ha evidenziato in modo radicale una disuguaglianza preesistente, non creando quindi il divario ma mostrandocelo in maniera più chiara che in passato, costringendoci prepotentemente a farci i conti.
A questa constatazione di base possiamo aggiungere almeno due variabili più precise: il grado di autonomia delle persone e la residenza nei centri invece che in famiglia. Anche per avere accesso alle tecnologie, molte persone con disabilità hanno bisogno di un aiuto, di un facilitatore. E questo chiama in causa anche i rapporti interpersonali, la lettura dei bisogni, il grado di disponibilità degli altri. Aspetti che possono risultare ancora più critici nel caso in cui le persone disabili non abitino da sole o con la famiglia ma in un servizio residenziale.
Tutti abbiamo avuto notizie, anche tragiche, sulla situazione nelle residenze comunitarie (per anziani e disabili). Anche senza prendere in analisi le situazioni limite o più gravi, è chiaro che il lavoro nell’emergenza non sempre consente di sostenere in modo ravvicinato le persone che non sono autosufficienti nell’uso dei mezzi tecnologici.
Una ripresa graduale
Ora è il tempo della ripresa graduale, ancora una volta, però, non per tutti nè con le stesse modalità. Riaprono i servizi diurni e i laboratori in modo molto diverso da quello consueto. I centri sono ancora stretti in norme più rigide proprio a partire dalla consapevolezza che questi luoghi si sono rivelati fragili anche a fronte di attenzioni e misure di prevenzione.
Non è facile per nessuno – per le persone disabili, le loro famiglie, gli operatori – e a tutti è chiesto di rimodulare modalità conosciute e sperimentate spesso nel corso di molti anni. Anche alla luce della convinzione che l’ultima cosa che ci serve adesso è rifare esattamente ciò che abbiamo sempre fatto “prima”.
Si sta provando a ripartire anche e soprattutto in nome della grande sfida che questo periodo ci ha posto che è quella di riuscire a tenere insieme la sicurezza e la salute con la tutela del benessere fisico e mentale messo a durissima prova da regole necessarie ma che intaccano i bisogni vitali delle persone. Nel caso in cui le persone convivano con una disabilità che rende molto difficile l’elaborazione e la consapevolezza di ciò che avviene intorno, questo ha prodotto una grande sofferenza e come molti hanno sottolineato una doppia esclusione. Perchè la tanta fatica e la sofferenza che molte famiglie esprimono non vadano “sprecate”, si deve ripartire tenendo conto che riorganizzarsi, oggi, significa soprattutto ripensare ai servizi, ai percorsi, alle possibilità che possono svilupparsi. Ripensare a tutto questo insieme. Anche attraverso le voci di questa piccola inchiesta popolare, affiora chiaramente la richiesta di essere parte attiva e responsabile nel costruire un domani diverso dall’oggi, perché il futuro sia migliore del presente.
Giovanna Di Pasquale
Queste annotazioni nascono dal confronto e dalle conversazioni con: Roberta Ratti e Maurizio Sgarzi, genitori, Futura Associazione Persone Down, famiglie e amici; Vittoria Affatato, Associazione Senza il banco; Rosanna De Sanctis, psicologa Associazione d’Idee; Sandra Negri, educatrice Coop Accaparlante. La testimonianza utilizzata è di Giuseppina Testi