Pandemia e gender gap

By 30 Giugno 2020Radar

Laura, 49 anni, impiegata pubblica: «In smart working la strumentazione da casa non sempre è sufficiente; questo metodo di lavoro pervade la quotidianità e rende maggiormente difficile la gestione dei figli».

Francesca, 37 anni, educatrice, lavora a prestazione occasionale. Il problema economico per lei è centrale: «chi lavora come come, con ritenuta d’acconto, non ha tutele di alcun tipo». In particolare, dice, «non è contemplata l’esistenza di un bambino».

Chiara, 36 anni, impiegata: «con lo smart working mancano sia il diritto alla connessione che quello alla disconnessione. La flessibilità non può voler dire che bisogna essere sempre disponibili».

Noemi, 38 anni, è un’architetta. Durante il lockdown non ha percepito lo stipendio. In quel momento non è preoccupata ma esprime chiaramente la necessità di reinventarsi, di mettere in campo tutte le sue competenze per riuscire d arrivare comunque alla fine del mese: «il tema vero è che questa situazione ha tirato fuori problemi che erano sotto al tappeto, soprattutto dal punto di vista delle tutele». Ad esempio? «Con bimbi da 2 anni in su, la situazione è complicata: il tempo del weekend si è spalmato nella settimana, ci si ritrova ad organizzare la giornata con la famiglia senza un supporto esterno».


Questi flash sono stati estrapolati da testimonianze assai più complesse che tra marzo e aprile abbiamo raccolto nell’ambito della nostra inchiesta popolare, condotta dai cittadini per i cittadini.
Nel frattempo, due mesi più tardi, un rapporto dell’Ispettorato del Lavoro attesta che nel 2019, 37.611 lavoratrici neo-mamme si sono dimesse: il 73% delle richieste per una risoluzione anticipata del rapporto di lavoro è stata dunque presentata da una madre. Il documento rileva anche come solo il 21% delle domande di part time o flessibilità lavorativa, presentate da lavoratori con figli piccoli, sia stata accolta: ciò significa che solo in due casi su dieci c’è stato un via libera da parte del datore per rispondere alle esigenze di conciliazione tra il ruolo che i genitori hanno in famiglia e la prosecuzione dell’attività lavorativa.

A rileggerle oggi, alla luce di questo rapporto, le brevi testimonianze che Una Città Con Te aveva raccolto in piena crisi sanitaria, hanno un sapore particolarmente amaro e una portata potenzialmente molto più ampia.
Se in tempi “normali” le donne che dovevano rinunciare alla loro professione erano in numero drasticamente maggiore rispetto agli uomini, quante dovranno sacrificare la carriera in favore della cura familiare in tempi straordinari come quelli che stiamo vivendo?

Gli effetti del lockdown sul lavoro femminile

I dati relativi al 2019, pubblicati in questi giorni, sulle difficoltà di conciliazione tra vita familiare e vita lavorativa affrontate in particolare dalle madri, devono rappresentare più che un campanello d’allarme per la politica cittadina, regionale e nazionale. E’ infatti ragionevole pensare che gli effetti non ancora visibili del lockdown sulla disparità di genere nel nostro Paese stiano agendo e continueranno ad agire sotterraneamente se non si penserà ad arginarle prima che un rapporto, nel 2021, ci sveli con numeri ancora più drammatici una realtà che è già sotto gli occhi di tutti.

Il tema è antico e come per tutti i problemi che le nostre società si portano dietro da troppo tempo, il Corona Virus ci ha semplicemente posto di fronte all’esigenza di non rimandare ulteriormente un cambiamento radicale.
Il superamento del gender gap è una sfida articolata che riguarda il ruolo del femminile e del maschile nella cura della “casa” ma riguarda anche la disparità di salario, di prospettive lavorative e di completa realizzazione del sè.

Donne precarie

Per questo, assieme alle testimonianze delle giovani madri di sopra, pubblichiamo il racconto di una giovane precaria alla quale la scelta completamente libera di diventare o meno madre è preclusa, se non altro in parte, dalla difficoltà di poter programmare anche solo per se stessa il proprio futuro.

«Ho 36 anni e sono una giovane precaria della ricerca e didattica universitaria. Il mio contratto scadrà il 31 maggio e sicuramente non sarà rinnovato», ci aveva detto in piena quarantena.
«Da quando è iniziato il lockdown ho proseguito il mio lavoro totalmente da casa. Personalmente ho dovuto investire su un abbonamento mensile di circa 30 euro per avere una buona connessione internet (cosa che prima non avevo, passando la maggior parte della giornata tra ufficio, aule e biblioteche). Un investimento necessario per garantire la mia presenza a
tutti gli incontri online e la possibilità di portare a termine la didattica con gli studenti. Inoltre lavoro utilizzando esclusivamente il mio computer. Questo per me è stato un limite, perché per alcuni
lavori di grafica e video editing mi avrebbero fatto comodo le macchine dell’ufficio, ma alla nostra figura professionale è stato sin dalle prime settimane vietato l’accesso ai Dipartimenti, se non per
motivi di particolare urgenza. Pertanto, anche in questo caso, “fai-da-te” con i mezzi che si hanno in casa.
Tutto questo genera non poco smarrimento: ha senso continuare a pagare un affitto a Bologna per un lavoro che può essere svolto da qualsiasi altro luogo? Se la prospettiva è stare a casa e lavorare tra quattro mura, senza poter godere dell’offerta di attività che ha sempre caratterizzato Bologna, ha senso continuare ad investire su un affitto e tutte le spese che ciò comporta?
Vivo in un appartamento condiviso con un’altra persona. Anche lei ha iniziato a lavorare da casa quasi subito. Nel suo caso l’azienda le ha messo a disposizione un computer ma non un abbonamento ad internet. Pertanto ha dovuto pagarlo personalmente e non è previsto alcun rimborso. Pur abitando in una casa grande l’esperienza di lavorare, sempre, entrambe da casa, si rivela faticosa. Ecco perché non penso che lo smart working, che in questa fase è un home working forzato, possa essere il futuro. Potrà rimanere esperienza collaudata da adottare in situazioni di emergenza, ma non prassi da diffondere nella quotidianità».

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